UN DECALOGO PER ASCOLTARE I TERRITORI
Testo dell’intervento di Giuseppe Imbesi per il 25 gennaio 2019 per l’incontro del CENSU su “Ascoltare i territori…”
Alla lettera che annunciava l’incontro di oggi ho risposto subito così, lasciando la pigrizia che mi è ormai usuale.
“Bel tema per l’incontro del 25: difficile ma affascinante. Da ascoltare non sono solo i territori, ma tutti noi coi nostri limiti, le nostre defaillances culturali e forsanche le miopie che come tecnici non abbiamo certo lesinato in questi anni.
Ai due termini “difficile” e “affascinante” ne aggiungerei un altro: “impegnativo” e molto. Ci si richiede di traguardare le esperienze che hanno caratterizzato la nostra attività professionale e, per loro tramite, andare oltre. Non dovrebbe essere perciò un fatto episodico ma l’avvio di un’iniziativa più complessiva di ripensamento del Centro.
La riuscita dell’iniziativa, che ritengo importante per il CENSU nella congiuntura che stiamo vivendo, non sta perciò nel racconto acritico su ciò che abbiamo sviluppato ma …nell’onestà intellettuale che sapremo dimostrare parlando del nostro operare sulla città e l’ambiente e degli strumenti che abbiamo avuto modo di usare nei nostri progetti.
Potrei chiudere qui il mio intervento, ma con una certa velleità intellettuale preferisco svilupparlo, schematizzandolo in dieci punti lasciati in forma interrogativa. L’idea è un po’ presuntuosa: perché un altro, ben più importante, “Decalogo” è alla base da sempre della nostra società. Me ne scuso.
1. Quali riferimenti assumere per costruire una diversa cultura urbanistica? La città, il territorio, l’ambiente nella loro dinamica fisica e sociale o il piano e la strumentazione tecnica che ne consegue? Scelgo i primi.
Dovremmo ritrovare il valore della città e della vita urbana, oggi, e da lì ripartire evitando di continuare a rendere sempre più complicati i modi per operare senza rivederne l’essenza. C’è da capire le nuove domande di una società profondamente modificata e che si aspetta da noi nuove inedite interpretazioni.
Sia pure con differenze sostanziali rispetto ad altre discipline, all’ingegnere si chiede oggi di contribuire a riconoscere il senso diverso dello spazio in cui viviamo. Si richiede forse anche qualcosa di più: uscire dall’impianto culturale “deduttivo” attraverso il quale avviene storicamente la sua formazione per cogliere le valenze positive dell’approccio ”induttivo” che caratterizza il tentativo di interpretare momenti della storia fortemente dinamici.
2. Come abbiamo continuato ad assumere la società in questi anni? Per quanto riguarda l’urbanistica ha prevalso nei confronti della città la contrapposizione manichea tra bene e male, tra proprietà pubblica e privata dei suoli, tra liberalizzazione degli usi e riduzione dei consumi (sempre più diversificati e inediti), tra concentrazione dell’edificato e sua dispersione, ecc. Sono questi ancora aspetti importanti e condizionanti ma non più sufficienti per avviare nuovi modi di operare, più congeniali alla società liquida cui siamo di fronte.
3. Come abbiamo aggregato fra loro i vari aspetti nei processi di pianificazione? Lo abbiamo fatto in modi sempre più complicati che hanno scalfito poco la complessità di fronte a cui ci troviamo ad operare. Soprattutto, pur dichiarando l’esigenza di integrazione fra aspetti tra loro diversi ed eterogenei, abbiamo accentuato segmentazione e separazione conoscitiva ed operativa con riflessi negativi sui processi formativi. Basta pensare all’incidenza del rapporto tra espansione urbana (leggi “edificazione”) e ambiente naturale, tra edificazione nuova e conservazione delle memorie storiche, tra i temi del trasporto e le proposte molto parziali che abbiamo saputo dare per la loro soluzione. Non sarebbe, invece, il caso di ritrovare una unità di approccio? In particolare per quanto riguarda gli strumenti di intervento distinguere più correttamente il rapporto fra piano strutturale e piano operativo dando anche un senso alle parole che li definiscono (non solo raccolta di vincoli ma scelte per aiutare la comunità locale a capire meglio l’ambiente in cui vive nei suoi spazi e nelle relazioni esterne e interne)? La ricerca coordinata da Carlo Monti sulla pianificazione è un inizio importante per una revisione dei nostri canoni disciplinari.
4. Come abbiamo messo a punto le forme di partecipazione sociale al governo urbano? Si è pensato di garantire il consenso della società attraverso i “corpi intermedi” (partiti, sindacati, centri culturali, ecc.). Oggi tali corpi manifestano una crisi che sembra irreversibile. I cittadini si sono allora impossessati della città e del suo ambiente? Correttamente, dal loro punto vista, hanno esaltato le esigenze che man mano si sono evidenziate. Ne sono una conseguenza ì moltissimi comitati che si sono costituiti quasi ovunque, così come paradossalmente le risposte “spontanee” che hanno caratterizzato per molti anni parti consistenti del nostro Paese anche attraverso l’abusivismo. Non si può evidenziare una possibilità di sintesi per questo processo, senza un adeguato riferimento all’idea di città sia fisica che sociale e produttiva che dovrebbe essere il patrimonio della comunità che vi vive e lavora. Così come dell’ambiente naturale e storico che ad esso si correla.
Gli esempi di tale idea nella storia della città non mancano (ricordo la pianta di Imola di Leonardo) ed anche oggi pratiche positive non mancano. Ma nel complesso osservo l’incapacità di andare oltre la parzialità di “regole” consolidate riferite soprattutto a definire i limiti di edificabilità di un luogo.
5. Già, ma qual’è l’idea di città e da dove può provenire? C’è ancora la possibilità di determinarla? Ritengo di sì: ma bisogna farlo rispetto ad ogni città e ad ogni luogo. Questi ci si presentano con una propria specificità (il genius loci). E’ il caso però di imparare di più e meglio a riconoscere la città non solo nella sua manifestazione fisica o dell’indifferenziata idea dell’urbano che ci proviene da altri mondi. L’importante per gli urbanisti è ricordarsi che l’efficacia della loro azione sta nella capacità di intervenire con una logica progettuale e che non si progetta per mettere in fila edifici ma ambienti di vita con le loro qualità e le possibili relazioni. E’ immanente perciò un’esigenza etica nei comportamenti e nei giudizi; questi derivano proprio dall’idea di città che dovremmo saper esprimere e che si riflette su molte delle politiche urbane su cui troppo spesso forniamo risposte come tecnici rispondiamo in maniera troppo settoriale (come avviene per i trasporti).
6. C’è un valore del tempo nel piano e nel progetto, non lo dimentichiamo spesso? Il tempo non è solo la proiezione di scelte in regole verso un più o meno lontano orizzonte. E’ una valenza intrinseca della città, dell’idea che se ne ha. Nei disegni di Le Corbusier per Parigi, il futuro dei grattacieli sembra sotterrare il passato dei palazzi e delle strade che l’avevano generata e supportata.
Come per ogni organismo vivente sono invece molteplici le valenze del tempo. La città nasce, invecchia, si trasforma sotto i nostri occhi e si riflette sui “costi” per la sua gestione. Ha una propria velocità di cambiamento e d’uso che deve renderci più attenti. C’è un naturale rapporto con l’ambiente circostante: la linea del mare, per Catania l’Etna che si riflette sulla via Etnea, il clima che incide sulle tipologie abitative (le inventa come i portici a Bologna), lo spazio verde, le piazze e via discorrendo.
Si amplificano i tempi di progettazione e di realizzazione delle opere; c’è la vita di un’opera e la sua sempre più rapida obsolescenza anche per l’uso di sempre nuove tecnologie e materiali; c’è il bisogno di monitoraggio e la valutazione di un tempo della manutenzione che spesso dimentichiamo, così come avviene per il giudizio che occorre attribuire a ciò che preesiste (da conservare o da buttare). Nuovi cicli di vita e di consumo della città (i trasporti, le attività commerciali, i flussi turistici) si propongono con ritmi di trasformazione sempre più rapidi. Lo stesso può dirsi per il rapporto tra quanto può essere rigidamente prestabilito (gli standard) e per quanto invece spontaneamente produce la città (la “movida” non capovolge il senso di un luogo dal giorno alla notte?).
Siamo di fronte a orizzonti temporali diversi che si interconnettono e talvolta si elidono, ma che sono la sostanza della socialità urbana, fanno parte dell’”idea” su cui mi sono soffermato e chiederebbero attente riflessioni anche sotto il profilo tecnico.
7. Quale atteggiamento avere di fronte al cambiamento? Nei momenti di cambiamento, come l’attuale frenetico e spesso dalle molteplici facce, è più difficile orientarsi e definire un’idea di città. Sembra che tutto avvenga per caso o per volontà superiori imperscrutabili. Si rimane attoniti e si lascia che venga meno ogni attenzione non solo alle scelte localizzative ma anche alle più comuni azioni atte a garantire la sicurezza individuale e sociale sulla quale si dovrebbe costruire ogni società. E’ in questi casi che l’impegno degli urbanisti dovrebbe essere maggiore. Districarsi nei meandri del cambiamento dovrebbe rappresentare un primo loro imperativo categorico; ascoltare gli altri (dalla “gente” ai tecnici dei vari settori ipoteticamente afferenti a un tema urbano, agli stessi operatori politici) un secondo imperativo; comunicare correttamente e se del caso correggere le posizioni precedentemente assunte, un terzo.
8. Entrano sempre nuove espressioni nel nostro linguaggio, le coniughiamo correttamente?
Sono metafore, parole con cui evidenziamo aspetti e situazioni, ancora non chiari si rincorrono ossessionandoci. Le traduciamo da altre lingue o situazioni spesso inadatte al nostro paese. Se ne potrebbe fare un lungo tedioso elenco. Lo evito; ritengo che dovremmo semplificare il linguaggio urbanistico e renderlo intellegibile a tutti.
Ne salvo solo due: l’incertezza e il rischio. Stanno contribuendo, forse loro malgrado, a modificare il determinismo che sembrava caratterizzare i processi di intervento nel nostro Paese. Invitano a valutare (un terzo termine utile) e a riflettere su ciò che è il caso o meno di fare: dovrebbero essere intrinseci al modo di costruire un progetto. Invece spesso sono solo appendici del nostro lavoro. Come accennava Dionisio Vianello sarebbe il caso di considerarle un ex ante e non un ex post delle scelte di un piano o di un progetto.
9. Quale potrebbe essere nel futuro il ruolo del CENSU? C’è un rapporto tra teoria e prassi che caratterizza le elaborazioni del CENSU, si deve alla commistione tra professionisti dell’urbanistica e docenti universitari nella composizione dei suoi organismi e alla volontà e al piacere di lavorare insieme. Tale commistione orienta le elaborazioni, gli incontri di lavoro, i convegni. La considero un valore e un fattore di originalità fra le istituzioni che, laicamente, forniscono contributi all’evoluzione dell’urbanistica nel nostro Paese. C’è però da lavorare per allargare la base associativa favorendo l’istituzione di nuove sedi regionali e provinciali e c’è l’esigenza di un dibattito, come quello che si sta aprendo, che consenta di aiutare a costruire una linea culturale che metta di più al centro delle valutazioni le città, i territori, gli ambienti nella loro interezza, complessità e valore ordinandole e subordinando a queste la trasformazione e la semplificazione degli strumenti di intervento.
10. Attraverso quali azioni il CENSU operare? Concordo con le proposte indicate da Dionisio Vianello.
In primo luogo è il caso di determinare un migliore, dialettico raccordo fra centro e ordini professionali regionali. Da lì ci si dovrebbe “alimentare”.
In secondo luogo c’è bisogno di garantire che gli ingegneri impegnati in commissioni urbanistiche locali abbiano un’adeguata preparazione e capacità critica. Quanti fra loro non hanno fatto neppure un esame di urbanistica? Non aiuta l’eccessivo frazionamento della formazione in corsi di laurea che spingono a forte specializzazione che poi non si rifletterà nella successiva attività professionale. Il CENSU potrebbe favorire e sviluppare attività formative ad hoc se non corsi di aggiornamento.
Infine, è evidente ormai che i temi urbanistici si riflettono direttamente o indirettamente su aspetti della produzione industriale e/o di opere edilizie specialistiche. Non sarebbe il caso di favorire maggiori integrazioni interdisciplinari su temi sul governo delle città e quanto meno su temi che vi si correlano (basta pensare alla possibilità di offrire corsi opzionali agli ingegneri gestionali, trasporti, idraulici, chimici, ecc.)?
Fuori decalogo per concludere L’urbanistica non è più, come recitava molti anni fa il vocabolario di Zingarelli, solo “edilizia cittadina”, né contrappone semplicisticamente “cives” a campagnoli: è tra le discipline fondanti sul nostro modo di conoscere, di vivere e di relazionarci.